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2013!

Pee Gee Daniel

1 L'inizio

Iniziò tutto così, come spesso accade nella vita (a qualsiasi punto di essa si sia arrivati). Con una mezza frase, detta a mezza bocca, e buttata lì quasi come se non rivestisse alcuna reale importanza. In un primo pomeriggio giallo e arsiccio, squadernato sotto la prepotenza di un solleone che arroventava le pietre ed essiccava la pelle.

Quella che dapprima gli si presentò come una semplice illazione, o poco altro – e in seguito si sarebbe attestata poi a rovello incessante e guastaumore - lo raggiunse durante la primissima peristalsi postprandiale, quando – contro ogni parere clinico e, allo stesso tempo, in aperta inosservanza delle più semplici norme dettate dal buon senso – egli andava sfidando l'attacco infuriato di un sole a picco pur di passare in rassegna una volta ancora la sua splendida piantagione di piante grasse. Splendida agli occhi di un amante del genere, si capisce.

La maggior parte dei visitatori cui aveva mostrato con tanto orgoglio quella distesa tutta spine e di uno scuro verdone che aveva messo insieme in anni e anni, acquistando gli esemplari più esotici e remoti, e facendoli curare da una soldatesca di giardinieri, da cui esigeva lo zelo, l'amorevolezza e l'operosa abnegazione che si è piuttosto soliti conservare per una nursery – bene, la maggior parte dei succitati visitatori, per esempio, tra i quali si erano via via succeduti i più importanti esponenti della politica e della finanza internazionali, specie occidentale, ma non disdegnando neppure qualche più insolita eccezione, si limitava a lanciare u-no sguardo frettoloso e non un granché coinvolto a quel fitto sistema di terreni coltivi e di serre che ospitavano le crescite di una tanto poco spettacolare – per quanto annosa e ossessiva – seminagione.

Qualcuno di loro magari, una volta ritiratosi, a fine-visita, presso le stanze a lui concesse per il pernottamento, si lasciava poi andare a un qualche gioco mentale, paragonando le cactacee appena scorse per tutti gli sconfinati possedimenti del proprio ospite, e rinvenendo più di un punto in comune tra costui e quel degenere frutto delle desolate distese sabbiose tanto predilette dal medesimo. Brutto, tozzo e spelacchiato – si spingevano a fantasticare i più impietosi. Dall'aspetto sgraziatissimo e quasi inorganico. Minerale, ecco! Tutta la cui forza sta però nel rampollare, alimentarsi e saper crescere laddove la più lussuriosa vegetazione, carica di frutti, colori e profumi gioiosi in breve seccherebbe. Esso insomma vive e ralligna non si direbbe nonostante, ma proprio grazie alla sconsolante aridità che lo circonda. È nato morto. E per questo vive! O sopravvive. Tenacemente. Non necessita di grandi quantità di acqua chiara e cristallina: trae il suo alimento dallo sputo di un passante, casomai. E anziché pretendere il bacio ristoratore del vento o di essere spazzato da una vigorosa brezza marina, sa trarre massimo giovamento anche da quel pocolino d'aria latentemente contenuta in un peto. Né chiede un limpido cielo primaverile per attecchire e farsi ben robusto: la più schifosa calura, che tutto appiccica e guasta, è per esso l'ideale! Vuole poco. E di quel poco sa avvalersi a suo pro, facendo ricorso a una magistrale capacità di adattamento... E a questo punto, già non si capiva più se il tale stesse ora pensando alla pianta oppure al collezionista.

Ma per non divagare oltre, si stava appunto dicendo che il nostro, come ogni primo po-meriggio che trascorresse in quelle tenute isolane, si stava attardando per una mezz'ora buona davanti a quella teoria di piante carnose e sgraziate - che per i suoi occhi rappresentavano la più incantevole delle gioie – senza darsi la minima cura di quel sole che gli pioveva, allo zenit, dritto sulla zona cacuminale del suo grosso cranio, rendendo così traslucida e stoppacciosa al-la vista la capigliatura dallo strano aspetto sintetico che la ricopriva (tanto da far paventare da un momento all'altro l'innescarsi di un'autocombustione).

«Quando ci sono questi calori è buona regola munirsi di un copricapo, presidente...»

Sentendo quella voce, sobbalzò. Non aveva avvertito né l'avvicinamento, né poi la presenza di quel tizio gomito a gomito con lui.

L'altro, da par suo, aveva approfittato del proprio passo felpato e dei propri movimenti, resi da decenni di pratica perfettamente silenziati e quasi indistinguibili da qualunque rumore di fondo, per porsi a lato del suo uomo e scrutare indisturbato per un minuto sano il grosso padiglione auricolare dentro cui avrebbe poi espresso quella frase di presentazione. Si era soffermato a fissarne – come ipnotizzato – soprattutto il lobo pendulo, ipertrofico e dal-l'impressionante tonalità di rosa carnicino, che lo rendeva del tutto simile a quella che ai loro tempi si sarebbe chiamata una svizzera, ma che ormai si preferiva anglicizzare in hamburger. O anche a una bistecca con l'osso, a ben guardare.

Il padrone di casa, passato il primo spavento, voltò lentamente la grossa testa verso di lui. Gli appiccicò addosso i suoi occhi, ridotti dalle reiterate blefaroplastiche ormai quasi solo più a delle feritoie. Occhi porcini, fece presto a definirli, in mente sua il nuovo arrivato, come se si sentisse in obbligo di descriverli in previsione dell’eventuale compilazione di un immaginario identikit.

Lo riconobbe e si tranquillizzò: sentì il cuore che ricominciava a pompare dentro ai ventricoli. Si trattava di uno dei capoccia dei servizi segreti. Il grado militare non l'aveva mai capito esattamente, anche perché lui, grazie ai soliti interventi di un qualche zio ammanicato, non l'aveva proprio fatta, a suo tempo, la naia. E quindi figurarsi…

«Salve, dottore» lo salutò allora, per non sbilanciarsi troppo. Ma si affrettò subito ad aggiungere: «E la prossima volta, se non le spiace, si faccia annunciare dal mio staff, prima di sci-volarmi alle spalle a quel modo...»

L'altro non fece neanche cenno di alzare gli occhiali scuri, a montatura ultrafasciante, che gli nascondevano lo sguardo. Si lisciò dolcemente quella parte del setoloso paio di baffi che gli schiumava il prolabio e, non raffrenando un sorriso a tagliola, gli rispose: «Io non sono dottore, presidente. E se chicchessia si accorgesse della mia comparsa prima che io lo voglia, non sarei un professionista serio...»

Quell'uomo aveva un accento fastidioso. Quella stessa inflessione regionale che aveva sentito in bocca a vari collaboratori (o galoppini, come in realtà piaceva chiamarli a lui) nel corso degli anni, ma che diventava in bocca sua – quelle sporadiche volte che si disturbava a sentenziare brevemente checché - una cadenza strascicata, fatta di tutta una serie di accentuazioni posposte che facevano apparire ogni enunciato come se fosse una domanda a trabocchetto.

«Ma lo sa che alla mia età il rischio di un infarto è alle stelle?»

Gli replicò allora, sfoggiando il suo tipico sorrisone, ricondotto, sotto quelle labbra sottili e quasi esangui, a un impeccabile color avorio dalla recentissima applicazione di ultra-suoni, più invasivo trattamento al fluoro a seguire.

«Terrò presente.» laconizzò quell'altro.

Come? Tutto qui? Ogni volta che scherzava sugli acciacchi insorti con la senilità ormai avanzata, l'interlocutore del caso si fiondava invariabilmente a spendersi, con grandi salamelecchi, in tutta una serie di rassicurazioni: che era ancora giovane come l'acqua, che era fresco come una rosa, che era forte come un toro (quest'ultimo, tra tutti i loci communes, era quello che il destinatario prediligeva).

Questo qui no, il tipo dei servizi segreti. Terrò presente, aveva commentato con quella sua pronuncia oziosa con cui masticava ogni singolo vocabolo che gli passasse sotto i denti, da terrone ozioso che era. E bòn.

Quell'uomo davvero non gli piaceva. Prima di tutto per quella sua faccia da poker, l'espressione indecifrabile che non ne faceva trasparire alcun sentimento. Al massimo, si intravedeva qualcosa nello sguardo, le poche volte che lo scopriva dalle lenti sa sole. Quello sguardo di un azzurro intenso, retaggio del corredo genetico normanno anticamente sparso dalle sue parti dalle arrazzate truppe degli Hoenzollen. Un azzurro così intenso che faceva rassomigliare quel paio di iridi a due buchi crivellati dentro al cranio del funzionario per poter vedere, attraverso di essi, il cielo che gli si stendeva al di dietro dell'occipite. Ma il peggio era l'uso che faceva di quegli occhi: glieli puntava addosso sempre un po' di traverso, e con essi sembrava esaminarlo. Sembrava scavargli dentro. Radiografarlo. Ed era proprio allora, al culmine della presunta disamina, che essi si contraevano in un taglio sbilenco, carico di quell'ironia taciturna ma spietata che già più volte aveva notato accompagnarsi a un sangue levantino.

Ora era già da un bel pezzo che si fissavano l'uno con l'altro, loro due soli, in mezzo a quella coltivazione di piante grasse a perdita d'occhio, tanto che incominciavano ad apparire come i protagonisti della scena-madre di uno di quegli spaghetti-western che si usavano una volta. Quelle scene di solito si risolvevano con una sparatoria a bruciapelo. Se anche stavolta fosse dovuta andare così, era già scontato chi di quei due avrebbe dovuto soccombere: non di certo il pistolero slanciato, privo di emozioni apparenti e per di più arricchito nei connotati da quel magnifico paio di baffi curatissimi, e sgombri anche della più minuscola briciola.

Si fissavano da così tanto tempo che a lui, al presidente, veniva voglia di saltar su e pro-testare: E allora? Cos'è che vuole da me? Perché mi è venuto a disturbare a casa mia, nella mia privacy e poi non fiata nemmeno? Lo avrebbe anche potuto fare. Ne era in pieno diritto. Tra l'altro, se quello era un cazzo di mammasantissima di quella conventicola di ammazza-ammazza o di piromani di documenti secretati, o di quant'altro intrigassero al servizio dello stato, lui per parte sua era lo Stato: almeno nel senso in cui il papa è la Chiesa. Eppure qualcosa in lui lo frenava: timore? Soggezione? Rispetto delle convenzioni? Innata mancanza di coraggio? Non sapeva, o – meglio- preferiva non indagarlo affatto. Scelse invece di restare lì, messo al cospetto di quello spilungone fatto su in un completo color canna-da-zucchero, attendendo che fosse l'altro semmai a esporre, a suo comodo, i motivi che lo avevano portato sin lì.

E ci volle ancora un po' al tizio dal fare enigmatico. Almeno tutto il tempo di succhiare lentissimamente la sigaretta che teneva stretta tra le falangi di indice e medio.

Non sa mica che il fumo fa male?, gli voleva dire, così, tanto per colmare quell'attesa così silenziosa e ormai insopportabile. Si ingoiò anche quella, restando là sul vialone interno, rivestito in resina poliuretanica, che conduceva alla sua villa, a farsi spazzare da un vento caldo e asciutto che, una volta incamerato dai polmoni, ti appiccicava addosso una voglia matta di bere, detergendosi di tanto in tanto la fronte dalle gocce rotonde e pesanti che il sole suscitava da pori ormai dilatatissimi.

«Presidente, qualcuno la vuole morto» gli buttò lì infine, d'amblais, non staccando gli occhi dalla punta della scarpa in cuoio ti-rata a lucido, attualmente impegnata nell'estinzione del mozzicone di sigaretta consumato sin quasi al limite marroncino del filtro.

«Come?» provò a controbattere lui, ma senza troppa convinzione.

L'occulto servitore dello stato ripeté, appena un po’ meno stringato: C'è qualcuno che la vuole morto, anche se non serviva, visto che il presidente aveva capito benissimo già alla prima. Benché capire qui, come predicato verbale, non sia adatto. Aveva sentito e introitato, ecco. Quanto a carpire e afferrare pienamente il significato contenuto dentro quella snella filastrocca di parole, beh, ce ne voleva ancora.

Per intanto quel messaggio, prendendo la porta dell'incavo di quel suo carnoso orecchio, si introdusse in lui come un minuscolo dittero che, una volta presavi sede, si espanda poi e prolifichi, ronzandovi dentro notte e giorno, con la mala creanza di un assillo ormai inestirpabile, che presto leverà il sonno e danneggerà ogni attimo di serenità.

Non osò chiedere chi fosse quel qualcuno, né perché volesse ciò. Si mantenne nella sua posizione - la faccia rivolta ai cactus - porgendo ostentatamente le spalle a quell'uccellaccio del malaugurio atterrato all'improvviso sulle sue proprietà. Rimase così, a tastare tra lingua e palato il gusto amaro, ma non ancora per bene deglutito, di quella nuova, sino a che non avvertì vibrargli in tasca il cordless.

Lesse sul display: la chiamata proveniva dal terminale dell'interfono collocato dentro una delle numerose stanze da letto. Rispose.

«Dove sei?»

«Dove vuoi che sia? In giardino, no?»

Si dispiacque subito del tono troppo brusco. Le donne son tutte delle regine e come tali van trattate, gli aveva sempre raccomandato il padre. E allora si precipitò a soggiungere: «Te stai bene, micina?»

«Bene, bene. Son qui che ti aspetto, presidente.»

Arrivo, le assicurò e butto giù. Tanto per quell'ora la pillola blu che aveva inghiottito subito finito di pranzare doveva aver già cominciato a fare il suo bell'effetto, meditò tra .

«Beh, io ora devo andare...» provò a spiegare al siciliano baffuto, ma una volta che si voltò per cercarne risposta, si accorse che quello là era sparito. Non aveva lasciato alcuna traccia di sé. Come si era materializzato, così si era volatilizzato.

Guardò in giro, vagando con lo sguardo a volo d'uccello su quell'infinito rincorrersi di pinnacoli spinati e dal colore verde carico, ma niente.

Dietro l'orizzonte frastagliato delle piante, saliva verso il cielo la linea del mare, dritta, placida, dello stesso azzurro squillante delle iridi di quell'uomo ora sparito come per magia dalla sua vista. Anche da quelle parti, tra flutti e schiume, nessunissimo segno di vita.

esci

2013!

Pee Gee Daniel

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Tutto parte dalla visita di un funzionario dei servizi segreti presso la tenuta estiva del Presidente del Consiglio italiano. Costui gli rivela, allarmandolo alquanto, che c'è qualcuno che sta attentando alla sua vita.

Il Presidente tenterà di capire chi, tra i tanti, possa effettivamente volerlo uccidere. Chi è il mandante degli aspiranti assassini? Gheddafi, l'ex-moglie, i figli, i magistrati, i collaboratori più stretti? Questa ricerca è contrassegnata da sogni (quello della incombente rivoluzione popolare ai danni della classe dirigente in carica), visioni psicotico-erotiche, incontri familiari, lotte senza quartiere contro un'autocoscienza che, nonostante gli sforzi, tenta continuamente di riemergere dall'annebbiata psiche del personaggio.

L'autore

pee gee daniel

Pee Gee Daniel è nato a Torino e vive in Alessandria. Ha pubblicato Gigi il bastardo (& le sue 5 morti) (Montag), Il politico (Golena), Lo scommettitore (Leucotea), Ingrid e Riccione (La Gru), Il lungo sentiero dai mattoni dorati (e-piGraphe), Freakshow (Kipple), Un'infilata di onesti accidenti (Scepsi e Mattana), Once upon a time in Valdiguggio (Leucotea) e il saggio Il riso e il comico (Montag).
Nell'aprile 2016 ha autopubblicato il thriller ucronico 2013!
Collabora con le riviste digitali Endoxa (Ed. Mimesis), Tibereide, '900 Letterario.

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Perché l'abbiamo scelto

Pee Gee Daniel racconta un giallo all'italiana sul filo della farsa, e costruisce con sapienza un'ucronia tanto reale quanto parodistica. Il merito va sicuramente alla capacità dell'autore di gestire personaggi ingombranti con misurata ironia, dando loro coerenza e consistenza anche all'interno di un contesto surreale.

Lo stile interessante e maturo, arricchisce il testo allontanandolo dalla banalità e conferendo alla narrazione una solida struttura. Dialoghi sempre credibili e un finale da scoprire offrono un motivo in più per leggere 2013!, anche se ormai il 2013 è lontano.