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Morte di Stato

Ruben Trasatti

Era un mercoledì di tranquilla campagna europeista, un altro giorno nell’anonimo calendario di lavoro che caratterizzava un qualunque dipendente statale. Eppure, quel mercoledì 10 luglio poteva considerarsi l’esatto opposto di un’abitudinaria routine lavorativa.

Nicola non si era ancora recato in ufficio. Aveva timbrato il suo cartellino virtuale in un posto che di solito frequentava quando doveva chiudere una delle tante pratiche che si accumulavano sulla scrivania. Negli ultimi tempi era preoccupato dell’aumento costante di nuovi pazienti in arrivo: la legge che regolava le mansioni di Nicola era entrata in vigore da poco più di 18 mesi e non riusciva a immaginarsi quante persone, fra qualche tempo, avrebbe dovuto seguire in un percorso psicologico e burocratico della durata di cinque anni. Aveva la necessità di essere affiancato da nuovi e giovani borsisti da sfruttare fino all’ultimo gettone di presenza.

Superati una serie di controlli, rinvigoriti dopo un attentato sfiorato e attribuito al Fronte della Resistenza, Nicola aveva preferito le scale piuttosto che uno degli affollati ascensori che portavano ai piani superiori, in cui tutti i presenti sudavano, chi per l’imbarazzo chi per l’ansia, come se avessero corso una maratona di tre ore senza mai fermarsi a riprendere fiato.

Al contrario di altre strutture, il direttore del nosocomio aveva scelto di proposito l’ultimo piano per quello specifico tipo di attività, così da creare un netto contrasto tra le due aree e differenziare i soggetti trattati.

Il leggero ticchettio prodotto dalle lancette dell’orologio che Nicola portava al polso gli pulsava in testa e andava di pari passo con lo stridore delle scarpe appena rodate, simile a quello dei giocatori di pallacanestro quando avanzano sul terreno di gioco. Questi suoni, uniti insieme, sembravano dare vita a un ritmo esasperante che centellinava i secondi.

Un ritmo cui però non era abituato: Nicola era di solito molto più distaccato e professionale, con l’andatura tranquilla di un uomo che sa ciò che sta per fare ed è dalla parte della ragione incontrovertibile, quella dello Stato. D’altronde, era lo stesso incontro a essere fuori dall’ordinario, ma era stato lui stesso a prendere la decisione e se n’era assunto ogni responsabilità.

Dietro la porta d’emergenza si apriva un lungo, interminabile corridoio dai toni pastello, che tentava di rilassare e quasi anestetizzare chi vi entrava per obbligo. Un soave sottofondo musicale, sempre presente, contribuiva all’atmosfera onirica. Una ninna nanna di altri tempi addolciva la pillola amara che da lì a qualche settimana spettava a chi vi rimaneva. In altre circostanze, Nicola sarebbe passato di stanza in stanza, come era solito fare, a salutare i colleghi e a rallegrare i presenti con una battuta di repertorio.

Scelse invece di recarsi nell’area ristoro dove sarebbe passato dalle simpatiche cuoche di turno a ritirare una delle classiche scatole di cartone di colore rosa dotate di piccola maniglia a due o più dita. Al posto delle addette trovò un ragazzotto sfrontato che non aveva la minima idea di come comportarsi in un luogo pubblico, tantomeno un luogo come quello.

«Ah bello alleccato, vatte ad acchiappà a’ torta. La 4. E come se dice, cond—»

Non ebbe modo di terminare la frase in romanesco che subito Paoletta, la più in carne delle due, lo strattonò da dietro e lo prese per le orecchie, intimandogli: «Tornatene da dove sei venuto, altrimenti ti faccio secco.» Simpatica sì, ma col fisico di una boxer.

Paoletta gli urlò di tutto mentre lo accompagnò sul retro, per mandarlo in pasto al capo del personale. Poi tornò indietro con un gran sorriso sul viso.

«Tesoro, oggi sei vestito che sei un amore. Un figurino. Vieni qui a fatte pizzicà la guancia che ce n’hai bisogno.»

Quello di prendere a pizzicotti le guance era un modo per rassicurare Nicola quando era più agitato del solito. Un effetto valido anche per Paoletta. Ed è vero che era vestito ancor meglio di quanto già non fosse di solito: tutt’altro che istituzionale, non indossava la giacca e nemmeno la cravatta, presenti in pochi esemplari nel suo guardaroba. La camicia però sì, imprescindibile, blu scura, cui si accompagnava una cinta dalle tonalità turchesi abbinata alle scarpe bianche con striscia laterale acquamarina. Jeans stretti e consumati dal tempo proprio come voleva la moda.

Paoletta prese in mano la scatola con all’interno la torta e gliela passò, dicendo: «L’abbiamo preparata con la ricetta che voleva lui. Era così buona che ne abbiamo fatta un’altra tutta per noi. Saluta tanto Michele e abbraccialo forte forte!»

«Stai pur certa che lo farò» le rispose Nicola con un pacato sorriso.

Uscito dalla cucina, continuò ad andare avanti lungo il corridoio finché non raggiunse le ultime due stanze, la numero 36 e la numero 37, entrambe accessibili da un piccolo atrio in cui era presente una scala d’emergenza. Prima di aprire la porta della 36 poteva già sentire la voce delle due assistenti, che anticipavano l’arrivo delle visite. Appena Nicola la aprì, le due ragazze misero in bocca un paio di trombette a lingua sonora per dargli il benvenuto. Un rito ormai consolidato che era stato suggerito dal Consiglio di Psicologi e Psicoterapeuti per rendere il clima più gioioso e allietare ospiti e visitatori. La stanza era stata addobbata con palloncini colorati, festoni e altri oggetti. Gli addetti facevano il possibile pur di trasportare gli ospiti al passato, quando erano bambini giocosi e spensierati.

«Buon settantesimo compleanno, papà.»

«Vieni qui, figlio mio.»

Nicola, prima di avvicinarsi al padre che stava riposando sul letto, poggiò la scatola sul bancone vicino l’ingresso e accompagnò le due assistenti all’uscita, comunicando loro di chiamare la caposala in una decina di minuti, cinque in più dello standard previsto. Chiusa la porta, scattò subito un potente abbraccio tra i due come non ce ne erano mai stati prima di allora. Gli occhi lucidi del padre, però, tradivano tutta la sua compostezza.

«Cosa mi dici?» esordì Nicola.

«Cosa devo dirti? Quando fai queste domande mi sembri uno di quei giornalisti che assalgono i familiari di una vittima e chiedono loro come si sentono.»

Il padre odiava a morte quella categoria professionale e aveva tirato un sospiro di sollievo quando Nicola aveva deciso di abbandonare il sogno di intraprendere la carriera giornalistica. Ne era stato orgoglioso perché era riuscito a fargli cambiare idea su quel mondo che lui considerava privo di qualsiasi etica e neutralità. Un giudizio che aveva maturato per una serie di torti subiti.

«Piuttosto, tu cosa mi racconti?» aveva aggiunto.

«Paoletta ha preparato una torta bellissima: ha seguito passo passo la ricetta che le avevi indicato. Cinque uova, 150 grammi di zucchero, 125 grammi di farina, 40 grammi di frumina, tre cucchiai di cacao amaro, due e mezzo di zucchero a velo, una bustina di vanillina…»

Un lungo elenco durante il quale Nicola non usò mai la lingua per inumidire le labbra e riacquisire una salivazione completa, letto a occhi bassi per non incrociare mai lo sguardo del papà. Terminata la lista, non contento, Nicola iniziò ad illustrare nei minimi dettagli la Foresta Nera: «Guarda qui, guarda: è tutta ricoperta di ciliegie fresche immerse per ore nel liquore e lucidate di rosso. Insieme alla panna ci sono dei pezzetti di amarena candita e dentro c’è un cuore caldo di cioccolato. Non ti viene voglia di assaggiarla subito?»

«Nicola, credimi, non ne ho bisogno. Comprendo benissimo i meccanismi del tuo lavoro, dato che sei stato tu stesso a raccontarmeli tante di quelle volte per non tenerti tutto dentro.» Il padre si fermò per un istante, quindi riprese con ancor più vigore: «Non evitare di rispondere alla vera domanda. Raccontami ciò che sta succedendo fuori, voglio saperlo. È questo il miglior regalo che potresti farmi, quello di rassicurare un genitore preoccupato per il figlio e per quest’abominio di società a cui noi abbiamo dato vita. Poi, certo, non mi faccio sfuggire una fetta di quella Foresta Nera…»

L’ironia era una delle caratteristiche innate del papà e lui le aveva in parte ereditate, con l’unica differenza che i suoi rapporti con gli altri erano contraddistinti anche dalla dolcezza appartenente alla madre. Alla richiesta del padre non fece seguito una risposta immediata, non tanto per il timore di far scoprire una terribile realtà o per tentare di nascondere la verità, già alla luce del sole, quanto per cercare di sintetizzare in pochi secondi le ultime novità in campo politico e sociale.

«Ricordi quando ti ho detto che avevano chiuso le frontiere in tutta Europa per evitare una seconda migrazione di massa, peggiore della prima?»

Lui annuì.

«Adesso hanno deciso di andarci giù pesante. Il Consiglio Generale Europeo per l’Immigrazione ha dato ordine di far circondare entro pochi mesi le zone più calde del Mar Mediterraneo con delle navi da guerra.»

«Continua» lo esortò Michele.

Nicola sospirò. «L’obiettivo è far desistere chi vuole partire dalle coste africane e raggiungere con i barconi la Spagna, la Francia e l’Italia. Quando saranno definiti tutti i dettagli dell’operazione, si è detto che non affonderanno nessuno ma nemmeno tenteranno di salvare qualcuno: si limiteranno a formare un gigantesco muro in mezzo al mare per bloccare chiunque abbia il desiderio di oltrepassarlo. La situazione è drammatica, al punto che nessuno può garantire che un giorno non decidano che quelle navi dovranno far fuoco al primo barcone che passa. Un generale si alza male la mattina e… boom. Scoppia un conflitto. È un precedente gravissimo: potrebbero anche avvicinarsi di più ai porti di partenza e distruggerli a colpi di cannone senza che nessuno dica niente» Nicola scosse la testa. «Quella gente ha soltanto avuto la sfortuna di nascere in circostanze peggiori delle nostre… è ingiusto!»

«Nicola, nulla a questo mondo è giusto. Ricordalo sempre. Devi lottare per ottenere giustizia, ma non potrai mai farcela da solo.»

Nicola lo ignorò; ormai voleva sfogarsi. «Quello che più mi preoccupa è la posizione degli Stati Uniti d’America. Con l’elezione dell’ultimo Presidente non è rimasto nulla di quella che un tempo era la nazione del sogno americano. Anzi, ci guardano con ammirazione e vogliono imitare il nostro modello. Mi viene il voltastomaco.»

Il padre lo riprese subito: «Attento a come parli. Non si può mai sapere cosa c’è in queste stanze!»

Bussarono alla porta.

Michele era sbiancato, mentre Nicola aveva realizzato di aver terminato il tempo a disposizione.

«Buongiorno, signori!»

La caposala era arrivata insieme a un’infermiera con il dispositivo di monitoraggio dei parametri biomedici e un secondo carrello in cui era sistemata una sacca del medicinale che avrebbero presto iniettato in vena al padre.

«Michele, come stiamo, oggi? Mi hanno detto della torta che le hanno preparato, pare sia meravigliosa: non l’ha ancora assaggiata?»

Nicola iniziò a isolarsi. Fuori dalla sua mente, la stanza veniva riempita di parole, termini gentili frutto di un programma di formazione ben congegnato e rodato nel tempo. Le fitte tapparelle bianche facevano filtrare poca luce naturale e il suo centro motorio non aveva voglia di azionare una delle due braccia per poter scorgere fuori qualche forma di vita alternativa che lo potesse distrarre, calmare.

«Bene, torniamo fra poco!»

Gli occhi di Nicola si misero a fissare il pavimento, di un bianco talmente splendente che avrebbe potuto riflettere anche un granello di polvere. Più teneva gli occhi fissi su quelle piastrelle, senza battere ciglio, più l’ambiente sembrava assumere altri colori, diventando più scuro.

«Nicola.»

Scuro. Scuro. Scuro.

Un’oscurità avvolgente e penetrante, con il resto delle cose illuminate che divenivano sfocate. Le piastrelle avevano perso il loro contorno e il pavimento assomigliava sempre di più al soffitto. Come il mare con il cielo nelle giornate più limpide.

«Nicola.»

Una spirale che lentamente inghiotte la visuale.

Un buco nero da cui non si può tornare più indietro.

Scuro.

Scuro.

Scuro.

«Nicola!»

Sfuggire alla realtà era difficile, sapendo cosa l’avrebbe atteso di lì a poco. Il suo cervello lo stava preparando alla situazione in una sorta di meccanismo di autodifesa. Alzò lo sguardo.

«Scusami. È che avevo immaginato…»

Il padre decise subito di fermarlo: «Portami quella fetta di Foresta Nera.»

Nicola non si era nemmeno ricordato di averla tagliata. «Tieni.»

Tra un boccone e l’altro, Michele disse: «Sei ancora certo di aver mantenuto quella fede granitica nei confronti dello Stato? Non devi mai dubitare di ciò che fai, appartieni a un’organizzazione con precise regole da rispettare e conosci bene le conseguenze dell’infrangerle. Hai la libertà di tornare un cittadino libero come tutti gli altri.»

«Per poi fare cosa? Essere inserito nella lista nera di chi diserta e rifugiarmi in qualche centro sociale? Oppure nelle fogne insieme alle talpe? No, non ci riuscirò. Non riesco a pensarci, adesso. Anche se non sono d’accordo con le decisioni che vengono prese a livello europeo e non sono più lucido come una volta. Inizio a pensare che sia tutto sbagliato. Anzi, la verità è che non sono più sicuro di niente. Vorrei cambiare le cose…»

Michele gli afferrò la mano: era un blocco di ghiaccio, segno inequivocabile di disagio e disordine interiore. Iniziava anche a tremare, come un po’ tutto il suo corpo pervaso dai brividi di freddo. In piena estate.

«Nicola, sappi che qualunque cosa tu decida troverai sempre il mio favore. Non tradire mai te stesso perché finirai soltanto per odiarti.»

«Papà…»

«Io non mi pento della mia scelta. L’ho fatto per te, per me. Sai cosa pensavo sull’argomento tanti anni fa, no?»

Dagli altoparlanti presenti in stanza iniziò a udirsi la melodia di un pianoforte, sfiorato con dolcezza dalle dita virtuali di un massimo professionista. Ognuno poteva scegliere il suo “inno alla vita” introduttivo.

«Sta iniziando proprio come volevo.»

Mentre Nicola già cominciava a piangere e singhiozzare, Michele ascoltava con attenzione la voce di una giovane donna che si aggiungeva al suono del pianoforte: «Michele Balestrieri, un uomo forte e vigoroso. Nato il 10 luglio 1960, ultimo di cinque figli, fu il frutto del matrimonio tra Elisabetta Moretti, di provenienza grossetana, e Piero Balestrieri, di antiche origini nobiliari parmensi. Il loro amore nacque nel mezzo delle colline toscane tinte dalle distese di grano e dalle file di cipressi. Michele fu sempre al centro dell’attenzione e dell’amorevole cura dei suoi genitori. Crebbe sanno e con alti valori, riuscendo a terminare gli studi in conservatorio mentre ancora frequentava l’ultimo anno delle scuole secondarie superiori. Raggiunta la maggiore età, si trasferì a Roma ed entrò a far parte delle più prestigiose accademie musicali, facendosi così presto strada nel settore. Il suo nome aveva raggiunto l’olimpo dei più grandi musicisti del mondo e aveva fatto del pianoforte la sua specialità, nonostante i primi studi fossero stati tutti rivolti al violino. Presto si trasferì a Frosinone e abbandonò Roma, definendola caotica e morbosa, nonostante in quello stesso luogo riuscì a coltivare una delle sue prime amicizie in un grande amore, Valentina, con cui convolò a nozze in un giorno indimenticabile: l’11 ottobre 1992. 32 anni lui, 34 lei. Tre anni e mezzo più tardi, il 14 maggio 1996, nacque il loro unico figlio, Nicola. Un fedele servitore dello Stato. La stessa fedeltà che ha voluto dimostrare Michele adempiendo fino alla fine ai suoi doveri di cittadino europeo. Lo ringraziamo infinitamente per il suo contributo al Paese e siamo certi che potrà ricongiungersi all’unico ed eterno grande amore della sua esistenza.»

Michele chiuse lentamente gli occhi. Nicola era immerso in un fiume di lacrime. La tenacia del padre stava ancora prevalendo: «Sono qui con te e lo sarò sempre» disse con un filo di voce.

Quelle mani erano così strette da potersi unire in unico nuovo elemento di due corpi distinti. Il pianoforte smise di suonare e si avviò l’ultima parte della procedura: la musica era cambiata, diventando contemporanea. All’unisono con la seconda voce femminile, Nicola si mise a canticchiare.

«Tanti auguri a te.»

Gli occhi del padre non si aprirono più. Aveva perso la presa.

«Tanti auguri a te.»

Nicola gli si avvicinò e gli adagiò le mani sul petto. Iniziò a mordersi il labbro. Sussurrò: «Tanti auguri, Michele.»

Pose la guancia su quella del padre, perdendo la sincronizzazione con gli altoparlanti. «Ti amerò sempre.»

Lo baciò dolcemente e poggiò la testa sul petto immobile del papà, spezzando il silenzio assoluto con un lamento senza fine.

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Morte di Stato

Ruben Trasatti

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Chi non sarebbe felice di andare in pensione a 60 anni? Un giorno, il Governo decide di realizzare il sogno di ogni lavoratore. Non sembra una falsa promessa, è realtà. La verità emerge soltanto dopo: per sostenere le future generazioni, si deve morire a 70 anni.

Roma, 2030. I cittadini hanno accettato la riforma. Nicola Balestrieri è un giovane impiegato dell’Agenzia per il Controllo del Cittadino Europeo, ente nato con la costituzione dello Stato Unito d’Europa. Nel ruolo di agente, Nicola è costretto ad accompagnare alla morte suo padre. Una morte di Stato.

L’Europa, contaminata dalla nuova ideologia, somiglia sempre più a un brutto passato. Anziani uccisi, malati eliminati, stranieri deportati. Nicola deve decidere da quale parte della Storia vuole stare. Difendere i diritti dei cittadini o essere un fedele servitore dello Stato?

«La costruzione di un mondo futuro appare intelligentemente critica, tante riflessioni sono condivisibili e la trama in generale è ben gestita e capace di “prendere” il lettore sul piano degli eventi come delle emozioni.» (Comitato di Lettura del Premio Italo Calvino – 30^ edizione)

L'autore

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Ruben Trasatti è nato nel 1992 ad Ascoli Piceno. Da tre anni collabora per il settimanale milanese Telesette occupandosi di programmazione televisiva.
È un grande appassionato di videogiochi e per molto tempo ha fatto parte della redazione del sito MondoXbox. Per Epic Games ha gestito la community italiana di Gears of War e ha contribuito come Graphic Designer e Concept Artist per il remake di UnrealTournament.

Il suo sito web


Perché l'abbiamo scelto

Non è facile produrre qualcosa di nuovo in un genere inflazionato come la distopia. Ma Trasatti ci è riuscito, e l'ha fatto scrivendo bene, scegliendo sempre il giusto ritmo, dando vita a personaggi veri, credibili, e curando tutti gli aspetti di una trama non sempre facile da gestire.

Due, sopra agli altri, sono gli elementi che ci hanno portato a selezionare questo romanzo per la nostra Vetrina.

Il contesto, curato in maniera quasi maniacale (nonostante l’idea di una Morte di Stato così come concepita dall’autore risulti, e per fortuna, ancora difficilmente immaginabile), permette al lettore di entrare subito nella storia, grazie anche ai rimandi alla nostra attualità.

I rapporti umani, descritti con grande sensibilità: hanno un peso e un’importanza fondamentali in quest’opera, nonostante la disumanità che ha corrotto la società, (soprattutto ai cosiddetti “piani alti”) protagonista del romanzo.

Possiamo dirlo con certezza: Morte di Stato è un romanzo che vi terrà incollati alle pagine.