Sadhu Futuro
Andrea Zanotti
1. Lama di Luna
La visiera della maschera antigas si stava appannando. Nero non vedeva l’ora che arrivasse il cambio della guardia. Si era convinto che gli effluvi del Ponge peggiorassero a ogni incarico di sorveglianza, tanto che ora si sentiva la testa pesante e gli occhi in fiamme, nonostante avesse appena cambiato i filtri.
Attraverso le coltri di fumenti riusciva a vedere le dozzine di monaci accartocciati su se stessi, in meditazione profonda. Forse morti. Prima o poi sarebbe successo, era inevitabile. Ogni volta si domandava come potessero sopravvivere, quali reali poteri celassero. Riconosceva il pallore delle loro teste calve e il giallo canarino delle vesti, attraverso il danzare furioso dei miasmi sprigionati dal sacro fiume Ponge.
L’aria in quella cupola a tenuta stagna, piazzata all’interno della mastaba, era talmente tossica che qualsiasi uomo comune l’avesse respirata anche per soli cinque minuti, avrebbe riportato traumi gravi alle vie respiratorie. Forse danni permanenti.
Nero non riusciva a comprendere come quelli che si ritenevano degli illuminati potessero sottoporsi volontariamente a quella tortura, e soprattutto come potessero sopravviverne. Serviva loro ad aprire la mente, il terzo occhio, così dicevano. Ma lui non era pagato per pensare, o avere opinioni proprie, solo per vigilare sulla sicurezza, quindi peggio per loro, anche se fossero crepati, altri matti li avrebbero seguiti e la sua paga sarebbe comunque arrivata. Per quanto riguardava lui, senza la sua amata maschera non avrebbe messo piede in quel sancta sanctorum per nulla al mondo, e si sarebbe tenuto sempre almeno a venti metri di distanza dal fiume sacro.
Osservava quei monaci, i Bodhisattva, mentre a occhi chiusi ciondolavano a gambe incrociate in nicchie scavate nella roccia della mastaba. Ognuno distante dieci metri dall’altro, chi a livello del Ponge, chi in alcove poste a pochi metri dal suolo, altri ad altezze vertiginose, a seconda del loro grado gerarchico. Più contavi all’interno della casta, più potevi avvicinarti al sacro fiume, esponendoti ai suoi decantati effetti illuminanti, anche se per molti risultavano letali. Tutti i monaci comunque avevano le labbra vermiglie in continuo movimento, a ripetere catene di parole senza senso, che confluivano in un unico salmodiare dal tono molesto.
Nero non riusciva più a tollerarlo. Non sopportava la follia che li ammantava, la deriva cui stavano condannando Shanti e tutti gli insediamenti vicini. Aveva sentito parlare di un regno al confine fra la Marca Settentrionale e quella Meridionale, chiamato Abbazia. Lì sembrava ci fosse un profeta realmente illuminato a condurre il proprio gregge. Non appena avesse messo da parte l’argento sufficiente, sarebbe partito con Greta, il suo Raggio di Sole. Sperava di riuscirci prima che nascesse il piccolo, o la piccola. Sarebbe stato bello stringere fra le braccia una copia in miniatura della sua donna, pensò.
Il suono del gong azionato da alcuni discepoli muniti di respiratori a semi-maschera lo strappò da quelle fantasticherie, e segnalò il cambio mantra. Gli aspiranti Bodhisattvase ne tornarono da dove erano venuti, portandosi appresso l’immane strumento e richiudendo le porte stagne della cupola. Lentamente il salmodiare cambiò ritmo, facendosi più irruento.
Nero non ricordava di averne mai sentito uno simile. Era un’armonia distorta capace di mettergli i brividi. Iniziò a spostare il peso da una gamba all’altra, sentendole intorpidite e a soppesare la balestra fra le mani con nervosismo crescente. Sentiva l’agitazione montargli dentro e si chiedeva quando diavolo sarebbe arrivato il cambio.
Sollevò gli occhi verso l’immane ideogramma dipinto sulla volta della cupola, il sigillo sacro ritraente lo spirito Divino che albergava nel Ponge. Non vi scorse nulla di strano se non una discreta bellezza artistica. Non riuscì comunque a trarvi alcuna stilla di quiete e tornò quindi a spaziare con lo sguardo al suo livello. A distanza di una ventina di metri scorse una delle altre guardie. Anche quella pareva agitata. Si passava nervosamente le mani sul visore e si sistemava il respiratore. Avrebbe scommesso una bottiglia di whisky di prim’ordine che anche lui stesse pensando al cambio della guardia, maledicendo i ritardatari.
All’improvviso ogni suono si azzittì, lasciando che l’unico rumore fosse quello delle irruente e venefiche acque del Ponge.
Nero si irrigidì e impugnò la balestra a due mani, pronto ad affrontare eventuali pericoli.
Cosa poteva aver interrotto l’estasi mistica dei pazzi? Le porte stagne erano ancora sigillate. Forse un nemico giunto dalle acque del fiume sacro? Ne dubitava, a meno che non si trattasse di qualche mostro antidiluviano dotato di anticorpi tali da renderlo invulnerabile. No, eventuali killer assoldati dagli altri signori della guerra, sarebbero per forza giunti dalle porte, non c’erano altre possibilità.
Uno dei monaci anziani, posto a ridosso della riva del fiume, si era alzato in piedi. Con voce sorprendentemente stentorea si era messo a urlare:
«Il sacro Ponge ha parlato: un profeta femmina giungerà sulle sue sacre rive. Lama di Luna sarà il suo nome, e il suo battesimo nelle acque profonde costituirà l’avvento di un nuovo Regno dal futuro radioso!»
«Così ha parlato il sacro Ponge, così sia!» gli fecero eco dozzine di Bodhisattva, rizzandosi in piedi, eccitati.
La parete della cupola rifranse quel turbine di voci centuplicandone la possanza, tanto che Nero barcollò su se stesso. Il vecchio monaco non aveva ancora finito di dare spettacolo: ora si era pure messo a camminare!
Il mercenario non l’aveva neppure ritenuto possibile. Quegli esseri non uscivano mai da quel sepolcro, se non quando le loro ceneri venivano sparse nel Ponge, una volta crepati, e lui di certo non li aveva mia visti muoversi, se non oscillando su se stessi come birilli storpi. Eppure il vecchio camminava mostrando gambe secche da insetto e veniva nella sua direzione. Aveva un volto grinzoso e occhi privi di iridi, grigiastri e lattiginosi, cornee e retine divorate dagli effluvi del suo Dio fatto di flutti corrosivi. Aveva una barba incredibilmente lunga che contrastava col suo candore con i mille colori che aveva dipinti su volto e fronte.
Nero controllò l’integrità della maschera, temendo di essere sotto l’effetto allucinogeno dei fumi, ma quando ebbe il Bodhisattvainnanzi si convinse di non stare sognando. Il suo era un puro e semplice incubo, concreto e reale.
Il vecchio gli pose una mano scheletrica sulla spalla. In cuor suo ringraziò di indossare un corpetto di cuoio rinforzato con spallacci in ferro. L’idea di entrare in contatto con le carni contaminate di quella mummia scheletrita lo nauseava.
«Tu sei il padre di colei che redimerà il mondo. Portami dalla madre della profetessa!»
Nero non ebbe il tempo di riflettere. Riuscì solo a pensare che mai e poi mai avrebbe concesso a quel vecchio di immergere sua figlia nel Ponge. Sapeva che la parola di un Bodhisattvaera legge, per cui comprese di non aver scelta.
Premette il grilletto e fece fuoco. Il dardo si conficcò in profondità nel ventre del vecchio scagliandolo indietro. L’espressione del monaco tradiva un’incredulità stordente, quasi l’uomo si fosse ritenuto immortale. Invece una macchia cremisi si allargò all’istante sulla tunica canarino, ma Nero non rimase a osservarla, era già corso verso la porta stagna.
L’ululato indignato dei Bodhisattvasi propagò per l’androne come l’onda di un mare in tempesta, ridestando le altre guardie, rimaste impalate dalla sorpresa. La più vicina alla porta mirò verso le gambe di Nero, non sapendo se i monaci lo volessero vivo, per divertircisi un po’, e fece fuoco. Il mercenario deviò in tempo per scansare il dardo. Quando fu a distanza ravvicinata colpì la guardia al mento col calcio della balestra e la mise fuori combattimento.
Arrivato davanti alla porta stagna questa si aprì, dietro c’erano tre discepoli, attirati dagli schiamazzi insoliti, i volti sovreccitati che tradivano per la prima volta emozioni vere .
Nero non perse tempo, impugnò una delle sue accette e si buttò in mezzo ai seminaristi. Trafisse il primo all’addome e, sfruttando la sua stazza, spintonò gli altri a terra. Poi si strappò dalla faccia la maschera che gli rendeva difficoltoso respirare, e si precipitò lungo i corridoi della mastaba alla massima velocità che le gambe gli consentivano.
Doveva raggiungere Greta e portarla via prima che arrivassero a lei gli uomini dei Bodhisattva. Poteva dire addio al suo contratto da mercenario e ai suoi sogni di una vita migliore, ora doveva solo pensare a salvare la pelle a se stesso e ai propri cari.