Tijuana Express
Gianluca Turconi
“Prego la Santa Morte,
la invoco con massima fede e le posso chiedere tutto.
In suo nome verserò sangue, in suo nome sarò temuto.”
(Segreta invocazione messicana alla Santa Morte)
“Nato nella polvere della Baja,
ha conosciuto il dolore e la povertà. Ma come re Mida, tutto ciò che tocca diventa oro, anche il piombo con cui uccide i suoi nemici.
Dos Ocho, el Inmortal!”
(Strofa di un narcocorrido, ballata criminale messicana)
Todos Santos
1
A dieci chilometri dalla cittadina di Todos Santos, Baja California Sur, Messico.
Fastidioso, il sole al tramonto si rifletteva sulla vernice argentata del vecchio pickup Toyota in viaggio a velocità elevata lungo il sentiero sterrato, nell’area desertica a nord di Todos Santos. A bordo dell’auto¬mezzo traballante, seduto sul sedile del passeggero, Alejandro mise una mano di taglio sopra gli occhi per proteggerli dalla luce morente. Riuscì a distinguere l’ambiente intorno a sé: colline spoglie che salivano alla Sierra della Laguna alla sua destra e terreno tanto arido quanto roccioso dalla parte opposta.
‒ Non essere nervoso, niño ‒ disse Rogelio “el Gordito” Orellana, una mano grassoccia tenuta a ore dodici sul volante e l’altro braccio stancamente penzolante fuori dal finestrino abbassato. ‒ Il lavoro non è difficile, lo faccio da una vita senza problemi.
‒ Non chiamarmi bambino ‒ pretese Alejandro, dall’alto dei suoi diciassette anni. Mostrò le mani piene di calli per l’impegno profuso all’officina meccanica. ‒ Il lavoro non mi ha mai spaventato.
‒ Come altro dovrei chiamarti se ti presenti con indosso quella maglietta dei Simpsons? ‒ Orellana studiò brevemente i gialli personaggi da cartoni animati stampati sul tessuto.
‒ Non ne avevo un’altra pulita. E non so usare la lavatrice di casa.
‒ Sentitelo! Non sa usare la lavatrice! ‒ Il grasso corpo del Gordito sussultò in una risata soffocata. ‒ In fondo mi piaci, bambino. Mi fai ridere ed è una cosa buona.
Una goccia di sudore scese dalla faccia da indio del Gordito giù per il collo, diretta al petto villoso che spuntava dalla camicia lasciata sbottonata fino all’ombelico. Alejandro nascose un accenno di disgusto nel vedere la pancia prominente, le cui avvisaglie in gioventù erano valse a quell’uomo di trentacinque anni il soprannome di “cicciottello”.
Il Toyota sobbalzò ancora. Alejandro tentò di sistemare più comodamente la testa, ma la mazza da baseball appesa al posto dei poggiatesta non gli permise di farlo.
‒ È firmata da un giocatore dei Los Angeles Dodgers ‒ si vantò Orellana. ‒ La usava in allenamento.
Scettico, Alejandro diede un’occhiata allo scarabocchio riportato in cima alla mazza di legno che avrebbe potuto essere di chiunque. ‒ Com’è finita nelle tue mani?
‒ Per caso, come tutto il resto in mio possesso. ‒ Il Gordito aprì la bocca in un sorriso che mostrò due incisivi ricostruiti con amalgama d’oro. Li aveva persi a causa del calcio di un toro, diceva lui. ‒ Fa la sua figura lì sopra, perciò l’ho lasciata.
‒ Quanto manca al tuo allevamento? ‒ divagò il ragazzo, per togliersi dalla mente quell’immagine di grasso, sudore e denti d’oro.
‒ Manca quanto manca. I maiali non hanno fretta di farsi macellare.
‒ Dico sul serio.
‒ Anch’io ‒ replicò seccamente il Gordito. ‒ Se devi fare domande, cerca almeno di farle giuste. Questa non lo è. E ora smettila di frignare.
‒ Non sto frignando ‒ si oppose ancora Alejandro.
‒ Sei incredibile… Hai la lingua lunga e non sai stare al tuo posto. Non ho idea di come sei riuscito a convincere Nestor a darti un lavoro.
‒ Gli ho spiegato che ne avevo bisogno.
‒ Ancora a frignare… E guai a te se controbatti!
Un’occhiataccia del guidatore impose ad Alejandro un pronto silenzio. Imparò la prima lezione in quel mestiere: doveva rispettare le gerarchie, anche se a dare ordini fosse stato Orellana. Se lo fece piacere, perché il lavoro gli serviva davvero.
‒ Nestor è in ritardo ‒ si lamentò il Gordito, a uno scossone del Toyota più forte dei precedenti. ‒ Avrebbe dovuto chiamare da un pezzo.
‒ Probabilmente il cellulare non prende in zona.
‒ Ho portato avanti e indietro porci su questo sentiero da prima che tu nascessi. Qui il telefono prende.
‒ Magari c’è stato un guasto a un ripetitore sulle colline.
Quella possibilità insinuò il dubbio nel Gordito. Entrambi fissarono per un lungo secondo il Samsung incastrato nel portaoggetti tra i due sedili. Di scatto, Orellana afferrò il volante con entrambe le mani e pigiò a fondo il pedale del freno. Per poco Alejandro non stampò la propria faccia sul parabrezza, ma non poté evitare di sbattere la testa sulla mazza, nel contraccolpo.
‒ Che cazzo! ‒ gli sfuggì di bocca prima di accorgersi che il Gordito era già smontato dall’abitacolo lasciando la porta aperta. ‒ Ehi, cosa fai?
Non ebbe risposta. Orellana si portò a venti metri di distanza, fuori dal sentiero, in direzione delle colline. Mise il cellulare alto sopra la testa, ruotandolo leggermente in senso antiorario, finché un ghigno strano gli si accese sulla faccia.
‒ Avevi ragione, niño. Ci deve essere una torre guasta sulle colline. Adesso ne ho agganciata una funzionante. ‒ Compose velocemente un numero e restò qualche secondo in attesa di risposta. ‒ Nestor, sono io. ‒ Ci fu una pausa. ‒ Calmati. Come facevo a risponderti se il telefono non funzionava? ‒ Altro silenzio, più preoccupato. ‒ Perché non funzionava? Non lo so. Ma che importa? Adesso ci stiamo parlando. Sono qui col ragazzo, tutto bene per il momento. ‒ Orellana ascoltò con pazienza per quasi un minuto. ‒ Si fa sul serio allora. Quando ci vediamo? ‒ Un’ultima pausa. ‒ D’accordo.
La comunicazione fu chiusa.
Sebbene il calore del giorno fosse stato mitigato solo in parte, il sole era ormai divenuto una striscia ramata all’orizzonte. Il Gordito infilò il cellulare nella tasca posteriore dei jeans e si abbottonò con cura la camicia, come fosse imminente l’ispezione di un generale. Quando alla fine si decise a muoversi per tornare al pickup, il sole era tramontato. Si sedette al sedile di guida, accese il motore e fece brillare i fari nel buio.
‒ Ci sarà da aspettare all’allevamento ‒ disse quindi Orellana. ‒ Nestor ha altro da fare.
‒ Questa sera?
‒ Proprio così.
Alejandro sospirò. ‒ Pensavo ce la saremmo sbrigata alla svelta.
La voce di Orellana divenne gelida. ‒ Ci metteremo il tempo che ci vorrà. E se tu…
Un grugnito soffocato proveniente dal cassone posteriore coperto lo interruppe. Un riflesso di pura ira negli occhi del Gordito inquietò Alejandro. Orellana saltò giù di nuovo dal Toyota, dopo essersi impossessato del pungolo elettrico conservato nella tasca laterale della porta. Slegò la corda che chiudeva il telo blu a copertura del cassone e inferse una scossa prolungata.
‒ Callate, maledetto porco! ‒ urlò poi. E diede una seconda scossa.
Il grugnito scemò in un mugolio di dolore che presto scomparve del tutto. Il Gordito ne fu soddisfatto, perché dopo aver sistemato il telone, tornò nell’abitacolo con un’espressione di compiacimento. Infilò il pungolo elettrico al suo posto, sistemò il suo mastodontico corpo sul sedile e riprese la marcia sul sentiero tagliato dai coni luminosi dei fari.